“Chi non viaggia non conosce il valore degli uomini” scrisse Ibn Battuta, scrittore arabo e viaggiatore e io aggiungo “ chi non cammina non conosce le bellezze del mondo”: per la 25 esima volta preparo lo zaino per il trekking. E’ mattina quando l’aereo sorvola l’Himalaya, si abbassa sulle colline, sembra scuotere le piccole case di mattoni e increspa l’acqua delle risaie.
Penso a ciò che scrisse Alexandra David Neel tibetologa e lama buddista “ancora una volta giro le spalle all’occidente con gioia, con un senso di sollievo, di riposo, di togliermi finalmente un peso…” Sbrigo in fretta le formalità all’Immigration office di Kathmandu e il trekking permit, il “passaporto per l’Himalaya” è pronto.
Domani parto con Dawa, il portatore amico con il quale condivido da anni la fatica, soprattutto la mia: lui è sempre pronto a cantare anche all’ottava ora di cammino, mi racconta storie di streghe e di fantasmi.
Le ore sotto la pioggia allora sembrano meno bagnate, la paura delle frane, dei ponti incerti, della neve si alleggerisce intanto che sento la sua voce cantilenante ” c’era una volta in un villaggio ….” Condividiamo i silenzi e la solitudine mai pesante, una solitudine che anziché stringere il cuore lo espande per abbracciare tutto.
E’diventata ormai un’esigenza camminare lungo i sentieri himalayani, come se i sentieri, le montagne mi chiamassero per un silenzioso appuntamento d’amore. E allora parto, dimenticando la fatica e idisagi, nella mente rimangono solo i ricordi di momenti dolci e armoniosi. Agosto è la stagione dei monsoni, ma i lodges non sono pieni di turisti chiacchieroni, nei villaggi i ritmi sono ancestrali, le donne lavorano ai telai, raccolgono il riso cantando per esorcizzare la fatica, gli uomini impegnati in interminabili chiacchiere, i bambini improvvisano giocattoli di fantasia con sassi, una corda, un bastone che si trasforma in un drago.
Cammino per giorni senza incontrare turisti, ci fermiamo a bere innumerevoli the sempre troppo dolci in compagnia dei nepalesi: mi chiedono quanti giorni di cammino dall’Italia, se anche a casa mia ho i bufali e le galline, poi si allontanano silenziosi.
Mi riposo guardando la geometria delle risaie dove i raggi del sole si insinuano creando un teatro di luci ed ombre, lascio andare la fatica nell’acqua di un torrente, con paura lo attraverso su una precaria canna di bamboo che ha sostituito il ponte crollato, mi affido a tutti gli Dei e passo. Incontro lunghe file di portatori.
Sono scalzi o con precarie ciabatte di gomma, le scarpe appese alle pesanti gerle per non rovinarle. Nei loro volti scavati non c’è posto per il riposo, la fatica quotidiana la si legge negli occhi.
Mentre cammino la mente prende la forma del sentiero, delle rocce e i pensieri si alleggeriscono, si svuotano, la realtà si dilata e anche il mio corpo sembra perdere i contorni, per diventare un tutt’uno con i boschi di rododendri, con un ghiacciaio abbagliante, dove i pensieri giocano a nascondino fra i seracchi. Camminare è una meditazione.
Quando il cielo si rasserena appaiono le grandi vette cosi appuntite da sembrare delle lame che tagliano il cielo: per i turisti sono solo nomi che revocano imprese alpinistiche, per i nepalesi sono le dimore degli Dei. Ogni valico è segnato da un Chorten, un cumulo di pietre che i viandanti depongono, grati alle divinità e agli spiriti per la loro benevolenza. Le bandierine di preghiera appese ad un lungo filo sventolano diffondendo l’invocazione. Anch’io depongo una pietra, appendo le bandierine e chiedo la protezione. Ogni passo è un avvicinarsi agli Dei con leggerezza.. Quasi all’improvviso appare la sagoma di un Gompa, un monastero buddista. Mi riposo all’interno mentre è il momento della preghiera.
Silenziosi entrano i monaci, si siedono, iniziano a recitare le preghiere, suonano lunghi flauti, soffiano in grandi conchiglie, poi il suono delle lunghe trombe ricurve, un suono penetrante, da giorno del giudizio universale. Il loro salmodiare riempie il silenzio del monastero. Si espande nella valle, le voci, da basse e profonde, diventano alte, acute, per poi scendere di nuovo, in una scala musicale che unisce la terra con il cielo. A volte il silenzio della notte è interrotto dal suono del Dyangro, il tamburo sciamanico, in qualche casa si sta svolgendo una cerimonia, un rito sciamanico.
Lo sciamano si scuote, sobbalza, soffia, canta, in uno stato di trance “vola“ fino in cielo o “scende” agli inferi, per cercare una riappacificazione con qualche spirito adirato, per ristabilire l’equilibrio fra il divino e l’umano. Mi chiedo perchè torno sempre in Nepal: la risposta la trovo nella sacralità delle montagne, nella quotidianità con gli Dei, nella mano sporca di un bambino che cammina con me, nel cielo esageratamente stellato, nella pioggia forte, nei riti sciamanici, nei pensieri che non fanno rumore, nel senso di infinito e di comunione con il Tutto.