La valigia? Una metafora

Come non ripensare a Patty Pravo? Cantava “La valigia blu” e ci avvolgeva con scintillanti metafore. Sui viaggi (interiori) di cui si fissa solo la data di partenza ma non quella del ritorno. Sull’idea della fuga verso la felicità. Alla fine anche sulla lunga camminata nell’oscurità dell’Es, per placare tormenti, scoprire gioie, recuperare sogni sfavillanti. La valigia di Patty Pravo era un contenitore di miraggi, un simbolismo sacro, la chiave per spalancare porte immaginarie, afferrare il mondo. Tutto molto poetico.

Ma diciamocelo: nella quotidianità non è quasi mai così. Dovunque la si tenga – nell’armadio, in un ripostiglio – la valigia se ne sta lì per tanti giorni all’anno a conservare i nostri segreti. Quasi ci aspettasse al varco quando la prendiamo in mano, per ricordarci inflessibile chi siamo. Organizzati o disorganizzati. Ordinati o disordinati. Previdenti o improvvidi. Istintivi o riflessivi.

Non c’è bisogno di scomodare Freud, è la vita che ce lo rammenta. Discorso che vale per tutti, anche per gli uomini, se per un attimo mettiamo da parte logori stereotipi, come quello che affida alle donne il compito di preparare la valigia per il partner che parte per un viaggio d’affari.

E che va depurato dai clichè: nei film, fateci caso, la valigia viene sempre stipata velocemente, irosamente e soprattutto alla rinfusa, di norma a causa di un addio. Pochi minuti e una intera vita è compressa. Sigillata con tanto di combinazione.

La trappola del raziocinio

Nella realtà ognuno di noi ha un rapporto del tutto personale con la valigia. C’è chi la riempie all’inverosimile: parte per una vacanza e si porta dietro (classicamente) la casa, per poi rendersi conto, quando il danno è già fatto, che la metà di quanto piegato e impilato sarebbe stato più che sufficiente. C’è chi la fa e la disfa più volte, sempre più insoddisfatto. Chi la prepara in cinque minuti. E chi ha la necessità di organizzarsi mentalmente almeno una settimana prima, con tanto di lista di ciò che è indispensabile.

La conferma che riempirla con raziocinio per molti sia un compito arduo ce l’abbiamo tutti i giorni. E allora navighiamo su Internet a caccia di consigli. Della serie: meglio piegare o arrotolare? Meglio cominciare con le scarpe o con la biancheria intima? I professionisti dell’ordine vi suggeriranno le sequenze giuste. Vi diranno per esempio che l’ultimo strato deve essere riservato a tutti gli abiti in tessuti leggeri.

Ok, così la perfezione è più o meno raggiunta. Però che noia. Che dissipazione di tutte quelle romantiche aspettative che precedono le nostre partenze. Che ci aspetti un treno, un auto o un aereo, la sensazione di libertà che ci afferra quando ci apprestiamo a viaggiare sfuma in un lampo, cancellata dal calcolo, da un freddo ragionamento.

Sulle orme di Bruce Chatwin

E se invece imparassimo a partire con il nulla o poco più, come novelli Bruce Chatwin? Uno spazzolino, il libro tanto amato, un paio di slip, un jeans e una maglietta. Niente altro. Per poi sognare, avventurosamente, di saturarla, la nostra valigia, strada facendo. Di souvenir. Di abiti.

Di ricordi. Per esempio della memoria di una stretta di mano e di un sorriso al termine di una lunga negoziazione con un ambulante, magari in un suk. Rischioso? Dispendioso? Forse. O forse no. Un viaggio è prima di tutto un percorso nell’anima, una ricerca di senso.

Partiamo e ci apprestiamo ad aprirci al mondo, ai diversi da noi. Non importa che la meta sia un’isola della Grecia, l’Amazzonia, la lontana Polinesia o una città europea: vogliamo riempirci, sempre, di suggestioni.

E allora perché non fare semplicemente della nostra valigia un contenitore di esperienze? Dotiamoci di un taccuino, questo sì. Per annotare incontri, casualità, destini che si incrociano. Gli scandinavi, in questo, sono molto più bravi di noi.

Bagaglio ridotto all’osso, sapone da bucato per lavarlo quando si sporca, tanto spazio vuoto per infilarci le conoscenze che arriveranno. Ovunque è pieno di mercatini dove trovare tutto ciò che ci occorre, spesso a un buon prezzo. Un sapone, una maglietta, uno scialle.

Magari anche quel bel tappeto scovato in una casba. Poi ci ricorderemo di quel luogo non tanto perché proprio lì abbiamo acquistato un abito che ci ha folgorati. Ma per la sensazione che abbiamo provato, per l’atmosfera che ci aleggiava intorno, per lo sguardo di quel bambino che ci osservava. Per il chiasso o per il silenzio. Per un panorama mozzafiato. Per le chiacchiere con il venditore. Avremo così anche noi – poeticamente – la nostra valigia blu. E una cosa è certa. Torneremo a casa infinitamente più ricchi.

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