Le parole ci salveranno

La mia casa è relativamente spaziosa. L’ho ristruttura e arredata con cura, lei mi ha sempre ricambiata accogliendomi, e avvolgendomi, ogni volta che ne varcavo la soglia.

Proietto su di lei, come su ogni cosa, pensieri animistici: le attribuisco vita, sogni, parole, desideri e paure. Scaraventata nella solitudine dallo tsunami della pandemia, che ha quasi del tutto azzerato le relazioni sociali, ne vedo persino l’anima, mi sembra di avvertirne il battito del cuore.

E’ diventata la mia salvezza. E’ diventata la mia prigione. Un carceriere inflessibile che mi dà pochi minuti d’aria. Solo la routinaria necessità quotidiana – la spesa, un salto in edicola per comprare i giornali – mi lega, come un cordone ombelicale, alla vita di sempre.  Squilla il telefono e sento dall’altra parte sospiri di tristezza e preoccupazione.

Avevo sottovalutato, come tanti. Invece il virus è arrivato silente e aggressivo, ci ha travolti. Ora che nulla è programmabile, ora che si vive giorno per giorno, in attesa del vaccino, del ritorno alla normalità, scorro la mano sui miei libri. Sono tanti, li spolvero con cura, li accarezzo. Penso a quelli che mi hanno cambiata, che sono rimasti lì, radicati nella mia memoria. Memorie di Adriano (ma che belle quelle pagine, quel rovistare nella grandiosità del pensiero e nel perpetuarsi dei dubbi). Cent’anni di solitudine (letto d’un fiato: avevo vent’anni e conobbi il realismo magico, la spiritualità sganciata da ogni cliché e preconcetto). Il Vecchio e il mare ( la lotta dentro di noi, il desiderio di riscatto, la malinconia e il peso della sconfitta). E poi I Malavoglia, che mi fece odiare il concetto stesso di destino: reazionario, perché ci induce ad accettare rassegnati la malasorte. E ancora: Il libro dell’inquietudine (ho imparato da Ferdinando Pessoa che solo le parole giuste ci permettono di riconoscere esattamente, e sempre, ciò che ci circonda e ciò che alberga dentro di noi). Penso ai grandi scrittori. Mi dico che forse – se fossero qui con noi – sarebbero capaci di trovare il lessico giusto per consolarci.

Verrà un giorno, penso, in cui ricorderemo. Ma non so se, volgendo lo sguardo al passato, a questa tempesta, io sarò migliore: troppa retorica si è abbattuta su di noi in questi terribili mesi, confondendoci, piegandoci a una narrazione stereotipata, inutile, fuorviante. Forse, sarò – saremo – cambiati. Probabilmente io darò più valore a quell’attimo (un battito di ciglia) sospeso tra il passato e l’incognita del futuro. Secondi, minuti. Il palpitare della vita. Nel frattempo sto tornando bambina. Sto tornando agli anni dell’infanzia  in cui osservavo lo scorrere del tempo, in cui ogni presente era un orologio a muro che rintoccava e ogni rintocco un fremito, perché volevo crescere in fretta. Con la differenza che della beatitudine dell’infanzia avrò definitivamente rimosso quella fanciullesca percezione di immortalità che nella prima fase del cammino sulla terra accompagna tutti noi. Il telefono squilla ancora. E’ arrivato il momento di scrivere. E le parole sgorgano, sono un fiume in piena. Mentre la penna corre veloce, mi meraviglio di quanto i vocaboli appropriati ci permettano di attribuire il corretto valore ai nostri sentimenti e alle nostre emozioni.

Ecco, forse ripartiremo tutti da qui. Dalle parole. Diventeranno lunghi racconti, diventeranno il collante dei nostri abbracci, la fissazione di un sorriso. Inanelleremo aneddoti, rammenteremo stati d’animo, episodi. E quella stretta che prende il cuore quando la solitudine diventa la nostra compagna di viaggio. Il nostro lessico si rivelerà amico, ci consentirà di ricordare nel modo nel modo più adeguato quei lontani mesi bui in cui ci siamo scoperti così piccoli, fragili, soli. 

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