IO, PADRE MOTOCICLISTA.

Ci sono due categorie di persone che in qualche modo si assomigliano molto: quelli che vanno in moto e i genitori che hanno perso loro figli. Quale motociclista e padre di una figlia che si è tolta la vita a soli ventidue anni, questa questione m’intriga molto, sentendomi particolarmente coinvolto in prima persona.

Chi va in moto e non mi riferisco qui a ciclomotori, motorini o scooter, ma proprio a motociclette, sente di appartenere naturalmente a una categoria molto particolare di persone. Quando un motociclista incrocia  un “proprio simile” è prassi corrente, secondo un rituale ben preciso, quella di salutarsi con un semplice gesto della mano o di stendere una  gamba, se  lo si sorpassa. Mi sono ovviamente chiesto il perché quelli che vanno in moto si scambino un gesto di saluto quando si ritrovano lungo una qualsiasi strada: forse che siano più educati di quelli che vanno in bicicletta, a piedi o in monopattino? La semplice risposta è che si sentono accomunati dal rischio di poter avere un incidente serio, magari di morire o, ancor peggio, di restare paralizzati a vita. L’andare in moto, sia come quei pazzi e incoscienti che, nelle curve, rasentano l’asfalto come se fossero in pista, sia come persone “normali” che semplicemente vogliono assaporare quel senso di libertà simile ad una cavalcata nel deserto, espone sempre all’eventualità di cadere e farsi veramente male, al di là delle proprie responsabilità specifiche. 

Mi viene da pensare quale sarebbe il salto quantico di evoluzione della specie umana, se questo scambiarsi un cenno di saluto, fosse esteso a tutte le persone che incrociamo nella nostra vita, persone che, a ben guardare, appartengono indiscriminatamente alla nostra specie umana. Spesso succede che, anche due individui che si trovano a condividere l’ascensore del proprio condominio, s’ignorino del tutto, quasi che il saluto possa risultare imbarazzante, segno d’indelicatezza o un qualche cosa che semplicemente non si fa. Una persona che dovesse salutare per strada, lungo il marciapiede, qualcuno che non conosce, sarebbe sicuramente presa per strana o perlomeno alquanto originale. Pura utopia, quindi, pensare che tutti  possano comportarsi come chi va, piano o forte che sia, in motocicletta.

Perché mai paragonare un motociclista a un genitore che ha perso un figlio?

Perché qui stiamo parlando di un’altra categoria molto speciale di persone, questa volta non accomunate da rischi che intendono liberamente prendersi, quanto dall’aver compreso, d’un tratto e con piena consapevolezza, come la vita umana sia veramente a termine, nella maggioranza dei casi, senza preavviso alcuno. Questa questione della morte come parte integrante della vita, che dovrebbe essere insegnata, come l’alfabeto, ai bambini delle scuole elementari, resta, di fatto, per la maggior parte degli esseri umani, un qualcosa di cui si preferisce non parlare. Culture e tradizioni sembrano indicare da sempre che i bambini non debbano essere presenti quando qualcuno lascia il mondo terreno, quasi che la cosa non potesse mai coinvolgerli direttamente. Succede allora che, quando un figlio ha terminato il proprio percorso di vita e torna alla vera casa, i suoi genitori, che avevano sempre pensato che a morire fossero le persone anziane o comunque gli altri, sperimentino un dolore così dirompente e inumano del quale si trovano a prendere, di colpo e per la prima volta, piena coscienza, nella convinzione che nessuno potrebbe mai comprenderlo veramente. 

Un trauma e uno strappo dell’anima che sembra annientare e completamente stravolgere la loro vita, una rabbia prorompente contro un Dio che ha permesso qualche cosa di palesemente “ingiusto” nei loro confronti. Quei genitori si sentono persi, soli, le coppie spesso si frantumano avendo ciascuno le proprie modalità di vivere il proprio dolore. Crollano d’un colpo tutte le loro aspettative create sul futuro della vita di quel figlio che li ha lasciati d’improvviso; sentono questo stacco quasi come un tradimento da parte di quel “loro” figlio che non avrebbe dovuto morire … poi arrivano quei sensi di colpa che non devono mai esistere, ma  procurano comunque notti insonni ! 

Quando il mondo sembra veramente crollare, scoprono di non essere i soli ad aver perso un figlio e iniziano a far parte, anche loro, di una categoria “speciale” di persone, legate da un comune evento assolutamente inaccettabile, rendendosi conto che solo altri esseri umani che hanno vissuto la medesima esperienza, possano capirli e comprendere il loro dolore. 

Per un’empatia che nasce in modo spontaneo, si creano amicizie, condivisioni, e nell’aiuto reciproco, fatto di abbracci, parole ma anche di silenzi, si trova la forza di andare avanti, pur sapendo bene che la vita non sarà mai più la stessa. Bisogna, nei tempi giusti e necessari, diversi per ciascun individuo, arrivare all’accettazione di qualche cosa che sappiamo di non poter cambiare, e mai rassegnarci, ma continuare a vivere la nostra vita, in modo particolare, per onorare chi sembra averci lasciato, ma è accanto a noi, ancor più di prima e soffrirebbe molto nel vederci “vegetare”.

Un gruppo speciale di persone che sente un legame profondo anche con chi non conosce, solo per la condivisione di una medesima esperienza così traumatica che avvicina le anime e crea tra di loro una sintonia speciale… un po’ come tra quelli che vanno in moto, che si salutano senza conoscersi, solo per la condivisione di una passione che comporta dei rischi

Sembra triste riflettere sul fatto che si debba perdere un figlio o rischiare di farsi veramente male in moto, per provare quel senso di comunione e vicinanza che dovrebbe essere naturale e spontaneo tra gli esseri umani, tutti naturalmente fratelli e parte di quell’UNITA’ che s’identifica con il vero e unico Amore per tutto e tutti..

I nostri angeli parlano di un grande spettacolo quello di vedere gli esseri umani  sentirsi parte di questa UNITA’, quali esseri interdipendenti gli uni dagli altri e un genitore che, quando perde un figlio, si sente parte di quell’umanità che perde i propri figli !

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